
Ninfee. L’astrattismo americano e l’ultimo Monet
Nymphéas. L’abstraction américaine et le dernier Monet è il titolo della mostra al Museo dell’Orangerie di Parigi.
Un pennello di martora rossa e un secchio di vernice. I Giardini di Giverny e un loft di Manhattan.
Armonia con la natura e trance creativa. Claude Monet e Jackson Pollock.
Pensate che tutto ciò sia inconciliabile? Pensate a degli abbinamenti impossibili?
Probabilmente non avete visitato la mostra Ninfee. L’astrattismo americano e l’ultimo Monet (Nymphéas. L’abstraction américaine et le dernier Monet) al Musée dell’Orangerie di Parigi.
Il titolo ci annuncia la scommessa degli organizzatori: trovare negli ultimi lavori di Claude Monet (1840-1926) un trait d’union con l’astrazione americana del dopoguerra.
Anche al netto dell’affanno dei francesi nel voler dimostrare che sono anche i precursori dell’Astrattismo americano, (loro che ancora non riconoscono che l’Impressionismo deve tutto ai nostri Macchiaioli…), si può dire che la scommessa sia stata vinta.
In effetti, in questa mostra si possono osservare diversi dipinti impressionisti che hanno fatto da ponte tra le ultime manifestazioni dell’arte classica e quella che sarebbe divenuta l’arte astratta, la più assoluta, la più radicale.
L’action painting infatti, insieme a tutta l’arte americana del dopoguerra, é stato un vero terremoto per noi europei stanchi e provati non solo dal punto di vista artistico.
Il linguaggio artistico dei vari Jackson Pollock (1912-1956), Willem de Kooning (1904-1997), Mark Rothko (1903-1970), Sam Francis (1923-1994), Philip Guston (1913-1980) fu un vero shock per il mondo dell’arte.
È vero, la strada ormai era stata spianata dall’Astrattismo e dal Cubismo di Pablo Picasso e Georges Braque, ma mai e poi mai, la sua arte sarebbe uscita veramente dai canoni “classici” della nostra storia millenaria.
Questa arte invece é tutta un’altra storia, una storia scritta dai vincitori della guerra che sembrano vogliano dirci: “Siete finiti!”
Claude Monet a confronto con Jackson Pollock
Tornando alla mostra, l’impressione che destano i video con Claude Monet da una parte e Jackson Pollock dall’altra non è facilmente dimenticabile.
Guarda il video su Claude Monet
Guarda il video di Jackson Pollock
Sul video di sinistra compare Claude Monet che sembra manifestare la ricerca di un’ immersione nella natura, un percorso verso l’armonia in piedi a dipingere rivolto verso l’alto, nell’altro video nulla di tutto questo. In Pollock più che una trance creativa, compare un furore cieco, disperato, tutto rivolto verso la terra….
Tutto sembra separarli eppure…


Le pont Japonais di Monet
Più che le Nymphéas, come sembra suggerire il titolo della mostra, a me sembra che il dipinto chiave sia un altro.
Parlo di Le Pont japonais di Monet, abitualmente esposto al Museo Marmottan, il museo parigino che raccoglie opere dell’Impressionismo ed arte francese dell’Ottocento.
Da un punto di vista strettamente visivo, estetico, penso che lo potremmo veramente considerare come l’anello di congiunzione fra l’impressionismo e le avanguardie americane.
La storia ci dice che questi artisti, nell’arco di un paio di decenni, hanno spazzato via la nostra ‘vecchia’ idea dell’arte intesa come aspirazione al bello e in qualche modo al sacro, strumento usato dall’umanità per una crescita personale e collettiva.

Ora invece l’artista non avrà altro limite che quello della propria creatività, anzi direi della propria coscienza, ovunque questa lo conduca.
Senza contare che di lì a poco un certo Andy Warhol da Pittsburgh avrebbe messo una pietra tombale sul concetto stesso di Arte.


Cosa resterà di tutto ciò? Come diceva Battisti (anzi Mogol), lo scopriremo solo vivendo.
Nel frattempo, secondo la visione capitalista, continuano ad aver ragione loro, visto le cifre inusitate che raggiungono i vari Willem de Kooning, Jackson Pollock etc. nelle vendite all’asta da Christie’s o da Sotheby’s .
PS: Il 17 maggio scorso ‘No 7 (Dark over light)‘ di Mark Rothko presso Christie’s New York è stato aggiudicato a quasi € 26.000.000 ( ventiseimilioni di euro).

Chissà cosa ne penserebbe Federico Zeri in una delle sue celebri boutades affermava che nessun quadro, neppure la Gioconda, dovrebbe costare piú di una trentina di milioni ( ma di vecchie lire…).