L’arte dei figurinai Bongiovanni Vaccaro
Salvatore Bongiovanni
Non conosciamo la loro biblioteca, ne sono rimaste tracce autografe in cui i due formidabili artisti ci offrono dettagli sulla loro formazione.
Sappiamo però che il fratello maggiore di Giacomo Bongiovanni, Salvatore Bongiovanni, nel 1842 raggiunge l’invidiabile posizione di professore di scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze.
Da umile figurinaio emigrato, riesce ad ottenere commissioni da alcune delle importanti famiglie fiorentine, nelle quali riesce a raffinare il suo stile popolaresco, strizzando l’occhio al Neoclassicismo di Antonio Canova.
La presenza di un parente così stretto a Firenze, se non ha spinto Giacomo Bongiovanni ad avventurarsi in Toscana, deve aver senza dubbio favorito la sua curiosità nei confronti dell’attenzione che i grandi artisti del Rinascimento e i loro eredi barocchi avevano riservato all’espressione delle emozioni nei volti e negli atteggiamenti dei loro personaggi.
Senza considerare il fatto che un esempio di una rielaborazione di questi studi era stato rappresentato in Sicilia dal lavoro dei Serpotta, che avevano sdrammatizzato certe pose paludate e severe con l’invenzione di putti divertiti e personaggi assai ironici, soprattutto all’interno degli oratori palermitani.
La proliferazione delle stampe tratte dai loro lavori a stucco, deve aver non poco formato l’occhio dei figurinai, che si ritrovano fra le mani un materiale altrettanto duttile. L’obiettivo di un racconto vivace della quotidianità non può contare su basi migliori.
Giuseppe Vaccaro
È con l’entrata in bottega del nipote Giuseppe Vaccaro, e poi nella sua produzione più propria, che il crudo realismo emerge con vigore: il suo interesse spazia dall’animato mondo popolare e agreste, ai gruppi in cui sembra vi sia una partecipazione emotiva dell’artista.
Un’ottica di interpretazione satirica, che trasforma i personaggi popolari in sberleffi.
Tecnica della terracotta ‘a foglie’
Le vesti sono frutto di una sperimentazione continua attraverso la sovrapposizione di piccoli lembi a sfoglia di terracotta, una vera vestizione delle figure che incrementa il dato realistico dei costumi popolari.
Giacomo Vaccaro, da abile plasticatore, riesce a fare soffrire la creta e a dare espressività alla figura che plasma, egli si sofferma sulla rugosità pronunciate e sui segni della fatica lavorativa nelle mani spesse e consumate, lacera gli abbigliamenti, coglie l’attimo così come farebbe un artista realista.
La sua mano emerge soprattutto nella coloritura eseguita a freddo, dove è evidente la delicatezza del pennello, la tavolozza delle tinte tenui che restituiscono la verosimiglianza della materia.
Nel 1856, Giacomo Bongiovanni lascia al nipote Giuseppe Vaccaro le redini della bottega, con l’incarico di portare avanti le ordinazioni dei gruppi di terracotta ricevute sia dal municipio di Caltagirone-alla cifra di settantadue ducati l’anno- sia dai numerosi clienti privati, che si mettono in fila per acquistare le loro figurine.
Il realismo di Giuseppe Vaccaro
L’artista indaga con sempre maggiore trasporto i caratteri sarcastici e grotteschi dei personaggi, colti a dividersi e consumare animosamente il cibo dopo la fatica dei campi oppure descritti nella loro febbrile attivita artigiana.
Tutte le raffigurazioni sono accumunate dal fervore dei gesti e dalle teatrali espressioni dei volti, i drappeggi laceri e movimentati sono frutto di un’attenta osservazione lenticolare della realtà.
Giuseppe, rispetto allo zio, si svela come autore di autentici teatrini psicologici, egli ritrae figure soffermandosi soprattutto sui particolari, anche quelli che potrebbero sembrare accessori o insignificanti ai fini della comprensione della scena.
Nessuno può negare che il repertorio di contadine e contadini, circondati da bambini e briganti, sia il frutto dell’osservazione diretta del popolo che frequenta le compagne, i mercati e le cerimonie religiose, ma la sagacia con cui i Bongiovanni Vaccaro così come tanti loro colleghi dell’epoca-sanno cogliere il momento, esaltare la stanchezza, come l’euforia, soffiare sul fuoco della rabbia con un guizzo degli occhi o un aprire di braccia, non può limitarsi soltanto a uno sguardo acuto sul vero.
C’è un profondo studio fisionomico alle spalle dei loro anziani, che tanto ricordano i volti grotteschi abbozzati da Leonardo Da Vinci nei suoi numerosi fogli.
C’è la consapevolezza che può derivare solo dagli studi dei gesti di Raffaello nelle mani che stringono uno spago da ciabattino o spulciano amorevolmente una testa pidocchiosa.
Non sono figure improvvisate né messe in posa: sono il frutto dello studio di stampe, testi e iconografie precise, a cui i figurinai hanno aggiunto un’attenzione certosina al dettaglio antropologico. Ma soprattutto ammirando le loro figurine sembra di sfogliare le pagine dei volumi pubblicati da Giuseppe Pitrè proprio negli stessi anni in cui i Bongiovanni Vaccaro arredano i salotti dei collezionisti che si appassionano alle loro creazioni.
Le stoffe degli abiti, gli accessori, gli oggetti e persino le acconciature rispettano alla lettera quello studio certosino che l’etnologo ha condotto nel corso di ricerche mirate a descrivere le tradizioni popolari siciliane.
Tra il 1846 e il 1913 Pitrè pubblica una serie di volumi in cui classifica gli usi, i costumi, la lingua ed i racconti orali dei Siciliani, in un avventuroso catalogo che fotografa un momento storico come raramente è avvenuto altrove su base regionale.
Dal suo lavoro emerge chiaro il fatto che le tradizioni isolane non sono una traduzione in chiave vernacolare di una cultura estesa a livello nazionale, bensì appartengono ad una vera e propria civiltà secolare, che ha sviluppato un idioma e un immaginario preciso, complicato dal fatto che si declina in modo diverso di valle in valle, di costa in costa, di città in borgo.
Pitrè si prende l’enorme responsabilità di mettere in ordine ciò che il tempo ha prodotto in maniera spontanea, offrendo ad autori come Luigi Capuana e Giovanni Verga un repertorio ricchissimo cui attingere per delineare i propri personaggi.

Piuttosto che affidarsi all’idea che Giacomo Bongiovanni abbia guardato a Verga, sarebbe più opportuno considerare l’ipotesi che entrambi si siano ispirati alla Raccolta di vari Vestimenti ed Arti del Regno di Napoli di Pietro Fabris, pubblicata nel 1773 con lo scopo di ritrarre i personaggi del popolo alle prese con mestieri precisi, e alle ricerche di Giuseppe Pitrè.